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Costruire un Team vincente

PREMESSA

“Meglio soli che male accompagnati”. “Chi fa da sé fa per tre”. “La società ideale deve essere dispari e non deve superare due componenti”. “Tanti galli nel pollaio non fanno mai giorno”. Abbondano i proverbi italiani in senso contrario al gruppo che, spesso, è visto come mezzo per sottrarsi dalle proprie responsabilità e/o  per imboscarsi nell’anonimato.

Ma il successo italiano nel mondo non è legato alle mega-aziende “fantozziane” (inefficienti e clientelari), per lo più di Stato, bensì a decine di migliaia di imprese medie, piccole e piccolissime, eredi di una tradizione imprenditoriale che risale all’Italia del Rinascimento e dei Comuni, e che disegnano il pil e l’export italiano in maniera non meno giapponese di quelle del Sol levante, esprimendosi grazie al lavoro tipicamente di squadra, proprio come su un campo sportivo, così come afferma Michael E. Porter, insospettabile testimone internazionale, autore di “Il vantaggio competitivo delle nazioni”.

Certamente l’impresa italiana non è solo legata al mondo del lavoro, anzi, il modello di impresa sportiva italiano è un esempio per il mondo intero e non teme alcun confronto.

Il “made in Italy”, nel mondo, è ormai, oltre che un marchio, una garanzia, grazie proprio a quell’innato senso del “gruppo” e la capacità di trasformarlo in “squadra”. Tra l’altro, il termine squadra é molto caro a noi italiani del quale sappiamo proprio tutto: dalla formazione alla panchina, dagli schieramenti ai reparti, dagli schemi ai ruoli individuali, dal clima di spogliatoio all’eroismo di chi si sacrifica per il collettivo, dal carisma di un tecnico alla managerialità di un dirigente.

Purtroppo, però, nella maggioranza dei casi, confidando troppo nei nostri “geniali” mezzi, noi italiani procediamo per “istinto” piuttosto che per “conoscenza”, ma la piacevole scoperta è che oggi il successo, specie proprio nei nostri modelli di impresa sportiva, non è identificabile con il gruppo bensì con la squadra, diventa una logica conseguenza se, oltre che a condividere un obiettivo, si applica la scienza della costruzione del team, appunto, il “team building”.

È molto probabile che chi non sia mai stato in un gruppo, prima o poi, comunque a breve, ne farà parte e dovrà fare i conti con un due punti di domanda: “Sono pronto?”, “Saprò diventare un ottimo giocatore di squadra?”.

Conoscere e svolgere bene il proprio mestiere, infatti, non è affatto lastessa cosa che essere un buon “giocatore” (uomo o donna), e questo sia enunciato una volta per tutte.

Innanzitutto, é molto importante comprendere la differenza tra “qualità tecniche” e “qualità del giocatore di squadra”.

Le “qualità tecniche”, il “mestiere”, sono le capacità specifiche delle quali ci si serve per eseguire un compito: che siano i fondamentali sportivi, come pure il saper battere a macchina, piuttosto che saper saldare o redigere una relazione.

Ma in un gruppo non basta essere tecnicamente competenti, bisogna anche fare il gioco di squadra, che è ben oltre il saper eseguire un fondamentale sportivo, o un qualsivoglia compito, alla perfezione.

Le qualità del “giocatore di squadra”, invece, sono quelle capacità che consentono di interagire con il resto del gruppo  (problem solving, brainstorming, come ottenere il consenso) perché possa funzionare “come squadra”.

Nella squadra i ruoli, ed i relativi pesi, sono for­temente diversificati:

  • c’è il leader, sia o no gerarchicamente il capo, che è la persona cui tutti gli altri fanno riferimento;

  • c’è chi sa far funzionare i meccanismi del problem solving e delbrainstorming;

  • c’è chi ha il dono di creare e sostenere il consenso o di risolvere i conflitti, e così via.

L’unico comune denominatore a tutti è il “saper giocare per la squadra” e non “per se stessi”, o meglio, anche per non sembrare degli illusi idealisti,la capacità di realizzare i propri interes­si giocando per la squadra: “se vinco la mia ripicca persona­le ma la squadra perde, ho perso”.

Il gioco di squadra

Una domanda preliminare: “Vale la pena giocare per la squa­dra?”

Tutte le ricerche dimo­strano che lavorando in gruppo si ottiene di più, in meno tempo, con meno sprechi e con meno fatica, producendo qualità elevata e creando un senso di soddisfazione generale.

Ad una catena di montaggio non si è nessuno, ed il lavoro vale “una busta paga”, comunque da guadagnare, ma in una squadra si è sempre qualcuno, e c’è sempre “una partita da giocare e tentare di vincere”.

Da sempre la natura ci mostra l’immenso potere del lavoro di gruppo, nella fauna, nella flora, nel ciclo della vita in generale.

L’uomo, ormai da qualche decennio, ha scoperto i benefici del “lavoro di squadra”. La cultura americana, che considera fondamentale ed ha codificato il “team building”, ritiene affascinante ed ormai indispensabile quest’arte, verso cui tutto il mondo, a questo punto, è direzionato, così che in ogni campo le garantisce i migliori contributi della ricerca per affinarne la qualità.

Il termine squadra (team, équipe, equipo) è ovunque sinonimo di successo ed i giapponesi sono la prova inconfutabile della validità del teorema.

Quindi, alla domanda preliminare, l’unica risposta é: “Decisamente si”.

Qualcuno, rispetto al “sacrificio” individuale potrebbe pensare: “Sarà un bel vantaggio per il gruppo con cui opero, ma cosa ci guadagno io come membro del gruppo?”.

Una squadra è un prodotto più che un’addizione, non è solo una coppia di canoisti, piuttosto che un quintetto di cestisti, piuttosto che un sestetto di pallavolisti, piuttosto che undici calciatori: è un insieme molto più potente che la semplice somma dei suoi componenti, è come un organismo in cui ogni cellula è sostenuta dall’attività di tutte le altre e, contemporaneamente, sostiene le stesse, mirando in “team” l’obiettivo ed adattandosi, flessibilmente, all’evolvere delle situazioni.

Quante volte si é sentito dire che “il lavoro non è uno sport” e magari che “lo sport non è un lavoro”: sono errate entrambe le asserzioni, ed è infondato ed arcaico incatenarsi a convinzioni legate ad un passato ormai in liquidazione.

In qualunque settore del mercato (mondiale), si ragiona solo in funzione del TEAM: è la carta in più cui si affidano le moderne organizzazioni che affrontano il XXI secolo.

Per l’imprenditorialità il lavoro di squadra è tutto e le regole che funzionavano ieri solo in campo sportivo, Italia in testa (salvo casi che però si manifestano soprattutto in società professionistiche delegate a volte “gestori appassionati” più che a “manager”), sono divenute fondamentali anche per il business quotidiano. Tra l’altro, inventarsi imprenditori non è un’arte esotica importata dall’America o dal Giappone, è da sempre un’arte tipicamente italiana, nel lavoro e, soprattutto, nello sport.

Team building

Su come si crea una squadra esiste un film, facilmente reperibile su videocassetta, che è un vero e proprio manua­le illustrato di team building, come si chiama nel gergo la creazione di una squadra: “Quella sporca dozzina” (The Dirty Dozen). Tratto da un romanzo di E. M. Nathanson, basato su un episodio reale, diretto da Robert Aldrich, il film racconta come da dodici pendagli da forca (soldati condannati a morte dalla corte marziale per delitti comuni), Lee Marvin, un intraprendente maggiore, sia riuscito a tirar fuori il più leggendario commando di tutta la seconda guerra mondiale.

La motivazione, certamente radicale nel film (rischiare o finire impiccati) non è, comunque, tutto. E nemmeno è tutto la forza creatrice del capo. La squadra nasce a parti­re dagli uomini e dallo scontro tra le diverse personalità, e sarà la durezza dell’esperienza a fare di dodici “nessuno”, dodici autentici “protagonisti”, capaci di totale impegno, radicale solidarietà, e persino di controllo sui propri punti di debolezza. Vederlo e rivederlo, con l’ottica del team building, ne farà apprezzare tutta la ricchezza.

Creare una squadra (Team building), possibilmente vincente, in modo scientifico, significa obbligatoriamente passare attraverso quattro fasi:

  • FORMING (comporre): Prima di tutto bisogna mettere assie­me la squadra, e nella scelta degli componenti, le qualità decisi­ve sono due: che siano diversi tra di loro, in modo da potersi integrare l’uno con l’altro come gli ingranaggi di una macchi­na; che abbiano una solida motivazione per accettare di fare squadra, perché all’inizio il cammino sarà senz’altro in salita.

  • STORMING (intrecciare): Per un verso la squadra ha bisogno di individualità diverse, ma le diversità sono anche spigoli: andare d’accordo, soprattutto sotto sforzo, non è affatto facile. Per integrarsi in un insieme che funzioni come un sol uomo occor­re imparare a superare gli attriti, anzi a conviverci. E l’unico modo per imparare questa fondamentale lezione è sbatterci la faccia: sperimentare il conflitto e riuscire a controllarlo.

  • NORMING (modellare): Una squadra è un insieme di individui più un insieme di regole che, per definizione, vanno apprese. Ma ad una squadra “vincente” non bastano regole qual­siasi: occorrono regole su misura. Ogni squadra dovrà costruirle da sé, e dovranno essere: poche, efficaci (che garantiscano il risultato), efficienti (che non facciano consumare più energie del necessario), e, soprattutto, condivise.

  • PERFORMING (orchestrare): La performance è misurata sui risultati: quando la squadra funziona è visibile. Finché non arrivano i risultati si è anco­ra a tribolare con il norming e la squadra ancora non c’é. Bisogna tenere sempre in considerazione che per darsi delle regole non basta, anche se serve, scrivere un decalogo: bisogna che cia­scun componente del team lo faccia proprio lo pratichi “come per istinto”, anche in emergenza, specie di fronte a situazioni impreviste.

Le quattro aree critiche

È, in ogni caso, necessario mettere a fuoco le quattro aree critiche per il successo di una squadra:

•  Il ruolo del singolo giocatore nello sviluppo e nell’applicazione delle regole di base del gruppo.

•  Come affrontare i meccanismi del problem solving e del brainstorming in una situazione di gruppo.

•  L’acquisizione delle tecniche necessarie per costruire ed ottenere il consenso all’interno del gruppo.

•  Soluzione dei conflitti, che sono comunque inevitabili e vanno sempre messi nel conto.

Le regole

Quando parliamo di regole base, bisogna tenere a mente: primo, che il gruppo ha bisogno di regole e queste devono essere codificate; secondo, bisogna essere flessibili nel definirle, tenendo presente della specifica situazione del gruppo e stabilendo delle regole lo aiutino; terzo, le regole valgono solo se vengono applicate, assumendosi la responsabilità di farle funzionare e di imporle quando serve.

Come è possibile immaginare lo sport senza regole? Non ci sarebbe gioco. Ma attenzione: in campo ci sono regole e regole. Da una parte ci sono quelle del fair play, le regole dello scon­tro con l’avversario, dall’altra quelle del team play, le regole del gioco di squadra, di come ci si dispone in campo, di come si difende, di come si attacca, di come si porta palla, di come si va in rete, piuttosto che a punto o in meta o a canestro, di come si ripiega per evitare il contropiede avversario, e così via.

Mentre le regole del fair play sono sempre scritte, e affidate a un arbitro incaricato di farle rispettare, quelle del team play non lo sono quasi mai: un pò perché sono “il segreto della squadra”, ma, soprattutto, perché sono talmente incarnate nei giocatori che tradurle totalmente in parole è addirittura impossibile. Pensiamo al tennis (tanto per non sembrare maniaci dei giochi con la palla): finché non si sa battere un servizio, si è in grado di ripetere tutte le regole per eseguirlo correttamente che si è lette su un libro o sentite da un istruttore, ma appena acquisito il fondamentale, anche in maniera appena decente, si hanno grandi difficoltà, salvo per gli esperti della materia, a spiega­re a parole la stessa esecuzione del gesto.

In entrambi i casi, comunque, fair play o team play, una regola non applica­ta è come se non esistesse ed un gruppo senza regole è certamente desti­nato al disastro. Finché c’è bisogno di formularle in parole, o addirittura di metterle per scritto, vuol dire che la squadra è ancora agli inizi.

Le tre regole fondamentali per il lavo­ro di gruppo

  • Il tempo del gruppo appartiene al gruppo. Quando si lavora in gruppo, tutto il resto (appuntamenti, telefonate, va e vieni tra la saletta riunioni e il proprio uffi­cio personale) va messo da parte. In squadra si lavora uni­camente per gli obiettivi della squadra: ci si concentra sul proprio compito senza divagare. Il tempo per vincere la partita è sempre scarso, e quindi la qualità del tempo che si dedica al lavoro di squadra è fondamentale.

  • Il rispetto per gli altri giocatori è la base del gioco di squadra. Il rispetto reciproco rende tutto più facile e permette a tutti di trovare una gratificazione nel lavoro. Rispetto non significa necessariamente amicizia, che può anche essere un alibi: “siamo tutti amici”. Rispettare gli altri vuoi dire ascoltare le loro idee, comuni­care costruttivamente invece di polemizzare, e mettere da parte le posizioni personali.

  • Si fa squadra rimanendo fedeli al proprio ruolo. Il livello di successo del team si misura sull’a­nello più debole, nella capacità di interpretare il proprio ruolo. Ognuno ha un ruolo e se non lo svolge anche gli altri non possono rendere nel loro: sarà tutta la squadra a perdere. Bisogna comprendere, quindi, bene il proprio ruolo e le responsabilità che ad ognuno vengono richieste e sostenere la squadra facendo quello che ci si aspetta e quando ce lo si aspetta.

Ma prima di proseguire è il caso di ribadire una precisazione sulle regole base: le regole che non si applicano è come se non esistessero.

Immaginiamo un incontro di basket, piuttosto che di hockey o di calcio, senza arbitro. Al contrario di quanto si possa pensare solitamente, a molti gruppi non serve un arbitro. Ciò che realmente serve ad un gruppo è che ogni componente segua delle regole e, ogni qualvolta ciò non avviene, qualcuno deve assumersi la responsabilità di farle rispettare. Certo è difficile farsi ascoltare quando qualcuno non si adegua alle regole della squadra. Si teme sempre di ferire qualcuno o scatenare dei conflitti eppure come membro del gruppo è compito di ognuno farsi avanti nell’interesse della squadra per garantire che le regole siano di aiuto e non di ostacolo al gruppo. Ma di fronte ad un membro non rispettoso delle regole non bisogna essere negativi o assertivi, a volte un cortese richiamo è più che sufficiente.

Il problem solving

Ora parliamo di un’altra qualità essenziale per tirare fuori il meglio dal gruppo: il problem solving. L’espressione sembra arcana, ma indica semplicemente l’attività con cui si tenta di risolvere un problema. Spesso i gruppi si formano proprio attorno a un problema: ridurre al minimo i tempi di acquisizione di un nuovo schema di gioco; cercare una logica motivazione alla diminuzione della percentuale di realizzazione; definire delle responsabilità all’interno di un reparto di gioco. Ed è proprio quan­do si trovano davanti a un problema che molti gruppi entrano in crisi: si trovano nei guai perché non hanno investito del tempo per trovare un metodo per risolvere i loro problemi di gruppo. Senza un metodo di riferimento si riesce solo ad ostacolarsi a vicenda ed alla fine a trovarsi “incartati” e, mentre il tempo scorre inesorabile, si finisce travolti dalla fretta: si va tutti di corsa senza arrivare da nessuna parte. Lavorando da soli la cosa è meno grave: a forza di esperienza, magari senza nemmeno rendersene conto, cia­scuno trova il suo metodo. In un gruppo c’è, invece, bisogno di qualcuno che si assuma la responsabilità di decidere di “usarne uno”, purché esplicito e condi­viso. L’obiettivo è di lavorare tutti allo stesso problema e nello stesso momento: la tanto rinomata “sinergia”. 

Uno dei metodi più diffusi è quello dei cinque passi:

  • Stabilire qual è il vero problema. Sembrerebbe ovvio, ma lo è meno di quanto sembra. L’errore più frequente nel lavoro di squadra è proprio quello di precipitarsi a tentare soluzioni senza far chiarezza sul problema: si combatte contro i sintomi ma non si arriva ad afferrarne le cause. E qui non ci sono scorciatoie: per inquadrare un problema bisogna investirci il tempo necessario: ascoltare tutti, discutere con tutti, porre, e porsi, delle domande….. e se non si è sicuri, procedere al secondo passo lasciando la questione aperta: la raccolta e l’analisi dei dati potrà contribui­re anche a chiarire meglio quale sia il vero problema.

  • Raccogliere e analizzare i dati. I dati da raccogliere devo­no essere soprattutto informazioni attuali, dati di fatto: le opinioni non sono dati ma ipotesi, quando addirittura non si tratta di semplici reazioni emotive alla situazione. Non bisogna, però, lasciarsi influenzare da emozioni personali, siano proprie o altrui: ecco, appunto, un grosso problema che hanno molti gruppi. Spesso, noi stessi, come giocatori di squadra, ci mettiamo sulla difensiva o sotto accusa, pensiamo che le nostre idee ed i nostri punti di vista siano quelli giusti………è naturale, ci mancherebbe. Il fatto è che il valore di una squadra sta proprio nella diversità dei punti di vista di ogni elemento che la compone, perciò, bisogna porre attenzione non solo a comunicare il proprio punto di vista in maniera chiara, ma anche ad ascoltare quelli degli altri ed a raccogliere quanti più dati possibile per comprendere i “fatti” che gravitano attorno ai problemi del gruppo.

  • Definire gli obiettivi. Dopo aver identificato il problema, con tutti i dati in mano, bisogna definire l’obiettivo generale, che sia “intelligente”, che sia SMART, aggettivo dif­ficile da rendere in italiano (qualcosa tra elegante, lucido, astuto, brillante, azzeccato) ma che in sigla si legge:

 

Specifico significa che non ci si può accontentare di “impegnarsi” a risolvere il problema: occorre precisare che cosa concretamente si intende fare per risolverlo. Poi l’obiettivo deve essere misurabile, accessibile e realistico. Molti gruppi si ritengono invincibili ed in grado di superare ogni ostacolo, in sostanza, tendono a darsi obiettivi non raggiungibili: si fissino pure obiettivi di ampia portata ma assicurandosi che siano accessibili e realistici. Da ultimo l’obiettivo deve essere raggiunto tempestivamente, per contribuire a far andare avanti il gruppo: fissare obiettivi troppo lontani nel tempo porterà il team al rilassamento ed alla demotivazione; anche una data troppo immediata può essere demotivante; l’obiettivo deve essere raggiungibile in tempi brevi e deve essere condiviso da tutti i componenti perché la squadra lavori unita. Del resto lo si è già detto: una squadra che lavora unità fa sinergia e tira fuori le migliori soluzioni.

  • Sviluppare le possibili soluzioni. La parola chiave è “collaborazione”. Se un’organizzazione avesse voluto che i singoli decidessero da soli non avrebbe creato un gruppo. Lavorando assieme, di squadra, si ottengono soluzioni migliori ed un buon modo per cominciare è il cosiddetto “brainstorming” di gruppo che, generalmente, dà ottimi risultati. Il segreto del brainstorming (che affronteremo più in dettaglio in un capitolo dedicato) è non fermarsi mai alla prima soluzione proposta: potrebbe essercene una migliore. In ogni caso, non bisogna scendere troppi nei particolari di un’idea: bisogna “buttare giù su carta” tutte le idee che vengono a mente e rimandare le analisi al momento successivo. Il secondo punto nella collaborazione allo sviluppo delle alternative è ottenere il contributo di tutti i partecipanti che saranno liberi, ed anche un po’ obbligati, di esprimere qualsivoglia opinione e/o punto di vista: sono proprio i differenti punti di vista che danno valore aggiunto al gruppo. È compito di chi conduce un gruppo, ma anche dei singoli componenti, riuscire a stimolare lo sviluppo comune di alternative e se qualche elemento stenta a partecipare bisogna coinvolgerlo.

  • Scegliere la soluzione migliore. Può sembrare facile, ma spesso non lo é. Ognuno dei partecipanti ha in testa punti di vista diversi e soluzioni diverse. Non bisogna, però, spaventarsi della varietà delle prospettive, se tutti osservassero dallo stesso punto di vista, non avrebbe avuto senso il gruppo stesso. Il segreto a questo punto è avere tutte le linee di comunicazione aperte fino a che non sia raggiunta una soluzione che sia condivisa e sostenuta da tutti gli elementi della squadra.

Se tutti i passi sono stati compiuti correttamente, si trat­ta di un concreto programma d’azione in vista di un preci­so obiettivo da raggiungere in tempi certi: si tratta cioè della partita in cui tutta la squadra dovrà scendere in campo, al massimo del coinvolgimento e della convinzione.

Il  brainstorming

Termine spesso abusato per dire elegantemente che si sta parlando “a vanvera”: ‘in questa fase siamo soltanto in brainstorming’.

In realtà, praticato seriamente, è una tecnica di lavoro estremamente produttiva.

L’idea è americana, e ad inventarla, una sessantina d’anni fa, fu Alex Osborn. La parola significa qualcosa come….. “scompigliare il cervello”, e ciò che Osborn vuoi dire è che per adoperare al meglio la nostra testa, per ricavarne i migliori risultati, bisogna decidersi ad abbandonare le ricette scolasti­che che raccomandano ordine, calma, logica e fiducia nei sen­tieri già battuti. Il caos, l’impulsività, la fantasia, il fuori strada possono essere, spesso, molto più produttivi.

Il cervello procede per invenzioni. Se non se ne é abba­stanza convinti, basta voltarsi un momento per ripercorrere la strada che abbiamo fatto: in poche migliaia di anni, a forza di cervello, siamo arrivati dalla pietra scheggiata ai satelliti. Può darsi che si vivesse meglio prima, comunque, è andata così. E inventare, più che un lavoro, è un gioco; un gioco con una regola sola: agitare durante l’uso. Le altre regole servono soltanto a poterlo giocare in gruppo.

Naturalmente esiste anche un altro modo di adoperare il cervello: è quello di usarlo come un computer (ora che è diventato un comune elettrodomestico possiamo usarlo anche come termine di paragone). Un computer è una mac­china logica: nella memoria contiene dei programmi, ed i dati che gli forniamo da elaborare li restituisce sviluppati; tutto dipen­de dalla qualità di ciò che ci mettiamo dentro, e la civiltà informatica ha già il suo primo proverbio: “spazzatura entra, spazzatura esce”.

Quando invece il cervello si mette a giocare è tutta un’al­tra musica: gli cade in testa una mela e ne viene fuori la legge della gravitazione universale. Se si ha il coraggio di agitarlo durante l’uso, insomma, il cervello è capace di pro­durre di più e di meglio di quanto riceve: ha un rendimen­to che supera il 100 per cento. Da questo punto di vista è il congegno più straordinario dell’universo.

Giocare col cervello è possibile a tutti: i risultati magari non sono istantanei come quelli di un calcolatorino tascabile, e, comunque, non sono mai garantiti; come in ogni gioco, si apprende soprattutto giocando; e ci sono ovviamente i più bravi e i meno bravi. Ma è un gioco veramente divertente, e sicuramente redditizio.

“Verso l’isola che non c’è”

Dagli studi che ho approfondito sul Management e sulla Comunicazione in questi ultimi 5 anni, ho elaborato, ma forse è meglio definirla rielaborazione sulla base di spunti già codificati, un gioco che ho denominato “Verso l’isola che non c’è” e che, oltre a rendere chiara la potenzialità del brainstorming, ci introduce concretamente nel lavoro di squadra.

Il gioco necessita di un conduttore, il “timoniere” (per il quale di seguito ho elencato le istruzioni del gioco),  e di una possibilità di raccolta delle tracce, il “foglio di navigazione”, per collezionare delle idee (anche di questo di seguito delle indicazioni).

Le regole per il “timoniere”

  • Il numero raccomandato, almeno la prima volta, è una decina di persone: quattro o cinque sono troppo poche, venti sono troppe. Per ottenere i migliori risultati dovrebbero partecipare persone diverse, disinibite, capaci di esprimersi e decise a gettarsi nella mischia. Come si può intuire, è un gioco che sembra fatto apposta per una squadra.

  • Il gioco si può svolgere ovunque, ma è consiglia­bile predisporre un minimo di condizioni logistiche: ogni partecipante deve avere il proprio posto attorno ad un tavolo o in circolo, tutti devono potersi parlare e vedere in faccia senza difficoltà; essere in possesso di carta, matita e spazio per scrivere; occorre una pare­te sgombra a cui poter appendere dei fogli, ed è utile, ma non indispensabile, una lavagna a fogli mobili.

  • La prima cosa da fare è assicurarsi che tutti i par­tecipanti conoscano le regole del gioco (specie quelle contenute nei punti cinque, sei esette), e che ciascu­no abbia provveduto a una breve autopresentazione: come mi chiamo, da dove vengo, cosa faccio, cosa penso di fare.

  • A questo punto, viene consegnato al gruppo il problema da affrontare, sintetizzato su un foglio di carta: uno di quei tipici problemi che non hanno una soluzione unica. È solo nei problemi di scuola che un’unica risposta è giusta e tutte le altre sono sbagliate. Un’equazione non è un vero problema: è un problema già risolto. Il gioco del cervello, nella ricerca scientifica, serve per inventare le equazioni capaci di risolvere i problemi. Una volta che si è riusciti a trovarne una il gioco è finito: per calcolarla, basta darla a un computer. Nella vita reale, di solito, non si sa nemmeno se il problema possa avere una soluzione: figuriamoci se ci si può proporre di trovare la soluzione giusta in assoluto, quella più giusta di tutte le altre possibili!

  • Il gioco si divide in due fasi nettamente distinte entrambe ispirate al simbolo della ruota: la girandola e la macina. La fase girandola è dedicata alla creazione pirotec­nica di contributi al problema: il cervello deve essere scate­nato e lasciato libero di proporre qualsiasi idea, anche, e soprattutto, la più pazza. La fase macina è dedicata allo sfruttamento dei contributi così creati: li si torchia con cura, in modo da estrarne il succo migliore, le soluzioni più valide e promet­tenti. Ciascuna fase, naturalmente, ha uno schema di gioco diverso.

  • La durata (a seconda del problema, a seconda dell’esperienza dei giocatori, a seconda degli obiettivi, a secon­da delle disponibilità) viene fissata dal “timoniere”. Nello svolgimento del gioco, comunque, due terzi del tempo sono dedicati alla prima fase e un terzo alla seconda.

  • La fase girandola è governata da sei ferree leggi (ormai lo sta scoprendo anche la scienza: persino il caos ha le sue strutture!):

(a) si parla uno per volta: ogni idea è preziosa, sia per il problema, sia come reattivo mentale per tutti i partecipan­ti, e non deve finire inghiottita dal rumore;

(b) si parla tutti: non si può stare a guardare! Ciascun giocatore deve gettar nel gioco qualcosa di nuovo: qualunque cosa gli venga in mente;

(c) no alle critiche: è vietato dissentire, demolire, polemizzare, obiettare, e, comunque, commentare negativamente le idee degli altri giocatori;

(d) sì al rilancio: chiunque è libero di riprendere, modificare, ampliare, scorciare, trasformare, ribaltare, combinare, e così via, le idee di chiunque altro;

(e) largo alla fantasia: non è che sia obbligatorio avere idee (idee ne vengono sempre: provare per credere!), ma è vietato censurarle e tenersele per sè;

(f) si raccoglie tutto: ogni idea, ogni spunto deve essere registrato su un foglio, magari di lavagna, ed esposto visi­bilmente su una parete sgombra.

  • La fase macina seleziona e sviluppa il meglio del patrimonio accumulato dalla fase girandola. Il lavoro si articola in quattro fasi:

(a) Classificazione: si organizza tutto il materiale raccolto in categorie. Lo scopo non è scientifico: le categorie in cui suddividere il materiale sono una libera invenzione del gruppo; lo scopo è che nulla vada perduto e che si riesca ad averne una visione di insieme.

(b) Cernita: tra gli spunti raccolti, senza perderci troppo tempo, si fa una prima classifica: i più realizzabili, i più attraenti, i più innovativi, i più economici, i più redditizi e così via. Non è una classifica definitiva: serve solo per deci­dere da dove cominciare il lavoro di sviluppo.

(c) Sviluppo: una per una, si prendono le idee in cima alle classifiche e le si rielabora ciascuna in una propria scheda, seguendo le indicazioni riportate nelle regole per i parteci­panti. Lo scopo di questa fase è da una parte di verificare la validità dello spunto e dall’altra di metterne in luce le potenzialità.

(d) Selezione: sviluppate un certo numero di idee (almeno quattro o cinque: dipende dal tempo disponibile), si stende un report conclusivo, che segnala quelle ritenuti migliori e sottolinea comunque gli elementi positivi di tutte quelle che hanno superato la fase Sviluppo.

Il “foglio di navigazione” per la raccolta delle idee

Titolo: Ogni idea deve avere un nome: per poterne parlare, per poterla confrontare con altre idee, ma anche, e soprattutto, per darle una identità.

Descrizione: L’idea deve essere illustrata sommaria­mente, ma in modo chiaro e completo: chi volesse realiz­zarla deve essere in grado di comprendere di che cosa si tratta.

Schema: Farne uno schema (o un disegno) è forse il modo migliore per verificarne la consistenza: un’idea che non si riesce a schematizzare, è molto probabile che non sia chiara nemmeno nella mente di chi l’ha proposta.

Varianti: Nessun’idea, è un’isola: discutendola, elabo­randola, emergono quasi sempre versioni alternative, idee simili, possibili sviluppi. Sono spunti che potrebbero rivelar­si preziosi, e non bisogna dimenticare di registrarli.

Vantaggi: Quelli da segnalare, evidentemente, sono i vantaggi sostanziali: quelli che entrano nel bilancio costi-benefici in base al quale si deciderà se realizzare l’idea, e come realizzarla, o lasciarla cadere.

Svantaggi: Anche qui, naturalmente, sono da segna­lare gli svantaggi più rilevanti: quelli che possono far deci­dere, tutto considerato, di rinunziare alla realizzazione dell’idea, o di adottare una delle possibili varianti.

Requisiti: Qualsiasi idea ha sempre delle condizioni di praticabilità: vincoli di legge, disponibilità di risorse e competenze e così via. E per poter prendere una decisione ragionata è indispensabile aver ben chiari questi limiti.

Programma: Non si tratta certo di un programma di dettaglio, ma del profilo sommario del percorso di realizza­zione: fasi, tempi, passaggi critici. Anche questo è un buon banco di verifica dell’idea: se non si riesce a tracciarne un programma di massima, l’idea non è ancora matura.

Valutazione: Alla fine, in ogni caso, il gruppo che l’ha elaborata dovrà dare un giudizio di valore sull’idea (praticabilità, economicità, redditività): “se si trattasse di noi, la metteremmo in pista o no? E perché?”

Risulta evidente che il brainstorming, se organizzato “non è parlare a vanvera” e senza impegno: è caos…..ma organizzato!

La costruzione del consenso

Le decisioni di gruppo (stra­tegie, priorità, incarichi e così via) risultano quasi sempre migliori di quelle individuali, se non altro perché condivise.

A volte sembra che a minacciare il consenso sia lo scon­tro tra le diverse personalità dei giocatori, e in parte può anche essere così. Ma non bisogna mai dimenticare che la forza di una squadra sta soprattutto nel mix di individualità diverse, e se tra individuo e individuo ogni tanto scoccano scintille, è una fortuna e non una disgrazia: per questo le decisioni di gruppo sono quasi sempre migliori di quelle individuali.

L’importante è capire, e tenere presen­te, che chi avanza un’ipotesi diversa non lo fa per far dispetto agli altri: semplicemente, ha idee diverse e, certamente, sarà convinto della bontà e dell’utilità delle stesse.

Il consenso necessario, d’altra parte, non è affatto un’as­soluta identità di vedute, ma un ragionevole compromes­so ed un buon giocatore deve saper ottenere il consen­so di tutta la squadra.

E allora necessita chiarire il significato di “compromesso” e “consenso”.

Il “compromesso” è un modo di giungere ad una decisione accettabile per tutti: generalmente, il risultato è OK ma non è il massimo che ci si potesse auspicare. Lo abbiamo già detto parlando di problem solving, pur­ché sia un’autentica soluzione e non un palliativo, la deci­sione migliore è quella più largamente condivisa….. anche se ci sarà, quasi sempre, qualcuno che non sarà d’accordo al cento per cento ed, ovviamente, incontrerà una certa difficoltà a sostenerla ed a metterla in pratica.

Il consenso, invece, si ottiene facendo in modo che persone con opinioni e punti di vista diversi riescano a vede­re le cose in maniera simile, anche se non identica: non attraverso una semplice votazione che, nel rispetto forma­le della minoranza, fa prevalere il parere dei più, ma attra­verso un’approfondita discussione, che permetta a ciascuno di afferrare veramente il punto di vista di tutti gli altri.

Come sempre, nella pratica, anche per la creazione del consenso esistono delle “ricette” basate sull’esperienza e si possono distinguere in cinque punti:

  • Spiegare il proprio punto di vista sulla situazione andando direttamente ai fatti, senza permettere ai fattori personali di intorbidire le acque.

  • Costruire aree di intesa. Innanzitutto sfor­zarsi di costruire aree di intesa, concentrandosi su ciò che unisce la squadra, piuttosto che iniziare esaminando i punti di disaccordo. Pilotare cioè la discussione verso gli elementi che uniscono la squadra, in modo che il disaccordo sia soltanto un residuo che un’aperta discussione potrà facilmen­te superare. Porre domande ed ascoltare servirà a chiarire quanto si è compreso dei discorsi degli altri.

  • Non mantenersi sulla difensiva: non agitarsi troppo quando qualcuno contesta il proprio punto di vista (anche gli altri sono alla ricerca della soluzione miglio­re per la squadra), ma confrontarsi apertamente, e professionalmente, con chiunque, pur senza farne un fatto personale, invitando tutti a essere chiari ed espliciti. Cogliere gli aspetti positivi ed evitare che gli altri si tengano sulla difensiva.

  • Fare in modo che tutti partecipino alla decisione: non chiudere mai la riunione senza aver raccolto il parere personale di ciascuno. Incoraggiare, sempre, chi tende a non partecipare. Il silenzio di chi se ne sta zitto non è una semplificazione ma una mina vagante: “lo sape­vo che finiva così, ma qui di quel che penso io non impor­ta a nessuno”. Il proverbio sostiene che chi tace acconsen­te, ma, almeno in una squadra, chi tace non dice nien­te.…e si riserva di criticare dopo.

  • Non cedere e non avere fretta. Ottenere il consenso abbisogna di tempo. Messe sul tavo­lo tutte le idee prodotte dal gruppo, discuterle finché non si giunga ad una conclusione che veda tutti d’accordo, a prescindere dal tempo che ci vuole. La decisione dovrà “cascare” dall’albero come una “pera matura”, magari senza neppure ricordarsi chi l’abbia proposta per primo.

Fin qui la ricetta, ma bisogna saperla utilizzare: se funziona, si adopera, altrimenti si modifica o se ne crea una nuova!

In ogni caso, il più ampio consenso possibile deve rimanere l’obiettivo di ogni lavoro di squadra.

La soluzione dei conflitti

L’ultima qualità dell’uomo (o donna) di squadra, ma prima in ordine di importanza, è quella di saper risolvere i conflitti. Chi pensa di vivere in gruppo riuscendo ad evitare il conflitto è in errore. Per un verso è un male necessario, ma è proprio il conflitto che ci permette di portare allo scoperto problemi e differenze.

Risolvere un conflitto significa scioglierlo, non trovargli una soluzione: un conflitto è un filo della squadra che si è attorcigliato. Se non si interviene subito, il pericolo è che diventi una matassa inestricabilmente ingarbugliata.

Dipende tutto da come si affronteranno i conflitti e disaccordi e soprattutto dalla capacità di evitare di mettersi sulla difensiva.

Esistono ancora cinque regole veramente determinanti

  • Assumersi la responsabilità di gestire il conflitto. Ad assumersi la responsabilità non è detto che debba necessariamente essere il leader della squadra: basta chiun­que, purché estraneo al conflitto. Affrontato così, il nodo si può sciogliere anche senza affrontarlo come nodo: si dimo­stra attenzione ai contendenti (molte volte non hanno bisogno di altro che di sentirsi compresi da qualcuno) e si riconduce il filo del discorso al merito del problema. Se invece si è personalmente coinvolti nel conflitto che si vuole aiutare a sciogliere, l’unica è riconoscerlo chiaramen­te come conflitto: “mi sembra che qui ci sia un contrasto: parliamone!”. Assumere responsabilità è un primo passo che por­ta al successivo.

  • Valutare apertamente entrambe le facce del conflitto. dar modo ai contendenti di spiegarsi tra di loro, attraverso un comune testimone; e se non basta, di spiegarsi con tutti. Il miglior consiglio è che tutti possano parlare liberamente e che il discorso si sviluppi sui fatti e non sulle persone: in squadra è in gioco la collaborazione su un obiettivo comune, non l’amicizia o l’inimicizia. Bisogna ascoltare, sempre, entrambe le parti, senza interromperle, consentendogli di esprimere il loro punto di vista e le loro opinioni, assicurandosi che le loro motivazioni siano basate su dati di fatto e non su fattori personali.

  • Focalizzare il vero problema del gruppo. Se a governare le reciproche spiegazioni saranno i pro­blemi e non gli atteggiamenti, il conflitto quasi sempre si scioglierà da sé, che è l’unica maniera autentica di sciogli­mento: il groviglio è nel filo e non può essere disfatto dall’esterno. Il team, una volta ascoltate le parti, si sforzi di comprendere “se ha focalizzato il problema”, ponendo domande ed ascoltando le risposte, cercando di individuare qual era il vero “inciampo”.

  • Individuare insieme le soluzioni possibili. Cercare alternative gestibili con le parti in conflitto, lasciandole esprimere in merito al loro punto di vista ed aggiungendo i punti di vista del resto del gruppo, stimolando la partecipazione generale.

  • Scegliere la soluzione più adeguata ai bisogni del gruppo. Per trovare la soluzione ideale per la squadra, bisogna sapere quali sono le esigenze della stessa ma, è stato già più volte rimarcato, in gruppo bisogna mettere da parte gli obiettivi e le aspirazioni personali. Aiutare chi è coinvolto nel conflitto è già il primo grande risultato di team.

Insomma, responsabilità, apertura e concretezza, di qualunque cosa si tratti, non siamo qui per litigare.

Conclusioni

Forse troppe volte è stata usata in questo lavoro la frase “prendersi le responsabilità”. Essere membro efficiente di un gruppo significa proprio “prendersi delle responsabilità”: la responsabilità di sviluppare ed applicare le regole base, di trovare un metodo che funzioni per il gruppo, di arrivare a decisioni comuni che tutti possano accettare (e condividere) ed, infine, di risolvere i conflitti ed usarli all’interno del gruppo per raggiungere i massimi risultati.

Le grandi squadre, infatti, non hanno paura dei piccoli conflitti: agitano le acque evitando che ristagnino, e danno un pò di sale all’insipido tran tran quotidiano, e, perché no, spesso, conducono alle soluzioni migliori.

 

Tavola riassuntiva delle quattro aree critiche

 

Le tre regole fondamentali per il lavoro di gruppo

  •     Il tempo del gruppo appartiene al gruppo.

  •     Il rispetto per gli altri giocatori è la base del gioco di squadra.

  •     Si fa squadra rimanendo fedeli al proprio ruolo.

 

Le tappe del problem solving

  • Stabilire qual’è il vero problema.

  • Raccogliere e analizzare i dati.

  • Definire l’obiettivo.

  • Sviluppare le possibili soluzioni.

  • Scegliere la soluzione migliore.

 

La costruzione del consenso

  • Spiegare il proprio punto di vista sulla situazione andando ai fatti.

  • Costruire aree di intesa: punti sui quali si è già tutti d’accordo.

  • Non mantenersi sulla difensiva: confrontarsi apertamente.

  • Fare in modo che tutti partecipino alla decisione.

  • Non cedere e non avere troppa fretta.

 

La soluzione dei conflitti

  • Assumersi le responsabilità di gestire il conflitto.

  • Valutare apertamente entrambe le facce del conflitto.

  • Focalizzare il vero problema del gruppo.

  • Individuare insieme le soluzioni possibili.

  • Scegliere la soluzione più adeguata ai bisogni del gruppo.

Bibliografia

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